SCIENZA

Dall’Asia al Sud America: la più lunga migrazione umana

Come si sono spostate le specie umane sul nostro Pianeta nel corso dell’evoluzione? È possibile tracciare queste migrazioni e l’effetto che hanno avuto nella definizione delle popolazioni che abitano attualmente la Terra? Uno studio, da poco pubblicato sulla prestigiosa rivista Science e realizzato da quasi 50 scienziati appartenenti a 22 Istituti di ricerca in Asia, Europa e America, ci mostra come le prime popolazioni asiatiche abbiano percorso a piedi oltre 20.000 chilometri, spostandosi dall’Asia settentrionale fino alla  Terra del Fuoco in Sud America, nel corso di migliaia di anni e di generazioni.

Si tratta della più lunga migrazione preistorica condotta dall’umanità finora evidenziata: un viaggio che si è svolto nel corso di millenni e che ora è possibile ricostruire in dettaglio grazie ai progressi della genomica.

I ricercatori si sono chiesti quale fosse l’origine dei primi abitanti del continente americano e come avessero acquisito quelle caratteristiche genetiche, che, nel tempo, li hanno differenziati dalle popolazioni euro-asiatiche. Per rispondere a questa domanda gli scienziati hanno analizzato i genomi completi di 1537 persone rappresentative di oltre 130 gruppi etnici dell’Asia settentrionale e dell’America del Sud, accessibili pubblicamente grazie al Consorzio GenomeAsia 100K. Li hanno poi confrontati con le informazioni genomiche di individui, sia antichi che moderni, dell’America Settentrionale con l’obiettivo di ricostruire sequenze geniche comuni e di comprendere quando i vari gruppi umani si siano divisi e insediati nei territori dell’America del Nord e del Sud, dando vita alle popolazioni che osserviamo ancora oggi.

Ma che cosa è emerso da queste comparazioni genomiche?

Un primo risultato rilevante riguarda la ricostruzione dettagliata delle rotte migratorie seguite da queste popolazioni preistoriche, che si sono spostate dall’Asia al continente americano e poi lungo di esso da nord a sud, affrontando sfide ambientali e climi estremi e adattandosi di volta in volta ai nuovi ambienti. La separazione tra Nord Euroasiatici e Nativi Americani può essere collocata dal punto di vista temporale tra 26.800 e 19.300 anni fa. Ciò è coerente con studi genetici già pubblicati, ma anche con i ritrovamenti di impronte umane nel Nord America. Sebbene gli scienziati non siano riusciti ad identificare uno specifico gruppo siberiano come antenato diretto dei Nativi Americani, le popolazioni della Beringia occidentale (la zona che copre lo stretto di Bering), come per esempio gli Inuit, sono risultate geneticamente vicine ai Nativi Americani, suggerendo la presenza di un antenato comune.

Gli scienziati hanno anche evidenziato un altro risultato interessante: le attuali popolazioni dell’America meridionale derivano da quattro linee genetiche, che si sono separate tra i 14.000 e i 10.000 anni fa a partire da una popolazione ancestrale comune in Mesoamerica. Dopo aver attraversato il Canale di Panama, la popolazione ancestrale ha colonizzato l’America del Sud, spostandosi lungo la costa e ad est e dando luogo a quattro gruppi principali in Amazzonia, nella regione del Chaco Seco verso est, nelle Ande e in Patagonia. Il passaggio dallo stretto di Panama di un gruppo ristretto di individui (non certo rappresentativo di tutta l’eterogeneità genetica delle popolazioni in Mesoamerica) e la presenza di limiti geografici e ambientali difficili da superare (come agli altopiani andini) ha fatto sì che le popolazioni sudamericane abbiano una ridotta diversità genetica, un po’ come si verifica per i popoli che vivono in confini geograficamente ristretti come quelli delle isole.

Che cosa possono insegnarci ancora oggi questi dati raccolti su migrazioni di popoli avvenute migliaia di anni fa?

Innanzitutto, la ridotta variabilità genica si traduce anche in una minore diversità genetica nel sistema immunitario (nello studio sono stati analizzati i geni HLA, deputati al riconoscimento dell’antigene). Questo potrebbe spiegare perché alcune comunità indigene, vissute in isolamento per migliaia di anni, siano state più suscettibili a malattie e a infezioni introdotte da successive ondate migratorie, come quelle dei coloni europei. Questo studio ci offre anche uno spaccato di come le popolazioni analizzate, nel corso dei millenni, siano state in grado di adattarsi ad ambienti estremi, acquisendo ad esempio la capacità di tollerare meglio l’altitudine e la carenza di ossigeno (grazie alla presenza di un allele del gene EPAS 1 riscontrato nelle popolazioni andine con maggiore frequenza) o ancora resistere all’ambiente inospitale artico (grazie alla presenza di una variante del gene CPT1A, che migliora la termoregolazione). 

Si tratta, quindi, di uno studio rilevante, unico per proporzioni, che, nel gettare una luce sul nostro passato, ci fa scoprire come nel nostro DNA rimanga una traccia indelebile di ciò che siamo stati e allo stesso tempo ci permette di comprendere meglio il futuro, offrendo informazioni cruciali sull’evoluzione del sistema immunitario e sulla risposta alle malattie. 
 

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