SCIENZA

Inchiostri biologici al servizio della medicina

Una delle frontiere della medicina rigenerativa è il 3D bioprinting, ovvero tutte quelle applicazioni tecnologiche che permettono di stampare in 3D, con materiali biologicamente compatibili, tessuti e organi umani. Si tratta di un ramo della scienza che integra conoscenze e competenze di discipline diverse: biologia e biotecnologie, scienze dei materiali e ingegneria, oltre che medicina e fisica. Per gli scienziati che lavorano in questo campo, la sfida cruciale è realizzare tessuti perfettamente funzionanti con lo scopo di impiantarli nei pazienti o di utilizzarli come modello di studio nei laboratori di ricerca. Una sfida complessa, se consideriamo che la maggior parte dei tessuti umani è formata da diversi tipi di cellule e da architetture ben precise, che sono strettamente legate allo svolgimento di una specifica funzione.

Come funziona il 3D bioprinting? Una stampante 3D, seguendo dei programmi specifici, depone, strato dopo strato, un inchiostro biocompatibile e produce in laboratorio la struttura di un tessuto. Trovare però un inchiostro adeguato, un bioink, non è affatto semplice: questi inchiostri devono, infatti, essere compatibili con le cellule, avere adeguate caratteristiche meccaniche e non da ultimo creare un’architettura in cui le cellule possano vivere, comunicare tra loro e continuare a svolgere la propria funzione. Una sfida ancora più difficile se si vogliono ottenere in laboratorio tessuti molto elastici o densamente vascolarizzati.

Un team di scienziati del Dipartimento di Ingegneria chimica e biomolecolare dell’Università della California, guidati dalla scienziata Nasim Annabi, è riuscito nell’impresa. Sviluppando un polimero contenente una proteina umana, la tropoelastina, precursore dell’elastina (la principale proteina responsabile dell’elasticità dei tessuti nel nostro corpo), hanno ottenuto un bioink capace di dare elasticità e resilienza alle strutture stampate in 3D. Non solo, queste strutture, una volta “riempite” di cellule cardiache, consentono la contrazione spontanea delle cellule cardiache, danno una minima risposta infiammatoria e non sono soggette a rapida degradazione. La ricerca, pubblicata a ottobre su Advanced Material e finanziata dalla American Heart Association e dal National Institute of Health apre scenari interessanti nel campo della rigenerazione dei tessuti cardiaci danneggiati.

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